Prima che possa passare nella testa di piccoli individui che costellano il panorama italiano idee malsane generate dall’ignoranza o dall’infamia, faccio una premessa necessaria: con il presente articolo, noi, in quanto Vanatrú Italia, non inneggiamo ad alcun processo illegale o che vada a nuocere un individuo, bensì  proseguiamo una sorta di rubrica di ricostruzione archeologica dedicata al nostro passato in quanto europei, alle nostre genti, ai nostri Antenati ed al nostro Culto. Questo trascende qualsiasi concezione morale, poiché non prende in considerazione i costumi intrisi di sporcizia medio-orientale di cui è vestita la società moderna ma diviene a-morale nel senso di assenza (e non mancanza) di una morale definita da presupposti contemporanei ed occidentali.

 

Dopo aver affrontato una principale introduzione ai rituali per il Vanatrú, facilmente consultabili qui, il tema principale di questa disquisizione sarà invece concentrato su un approfondimento archeologico e filologico (quantomeno esaustivo) riguardo una forma di sacrificio rituale ritenuta la più alta: il sacrificio umano.

Il rituale – chiamato “blót” in old norse – era considerato un aspetto necessario, fondamentale si direbbe, per la tradizione nordica in epoca pre-cristiana ed anche successiva; atestimonianza di questo, abbiamo a disposizione oltre 150 fonti (tra saghe, opere storiografiche, manoscritti di carattere legale, ecc) che ci forniscono anche dettagli precisi da cui attingere per riproporre nella nostra epoca determinate pratiche, seguendo l’aspetto ancestrale che i nostri Antenati ci hanno voluto passare.

La sua valenza è essenziale su diversi piani poiché, come ci suggerisce il significato del verbo “blóta”, insieme alla traduzione in “sacrificare”, assume anche il significato dell’atto di “celebrare”, diventando ben presto radice di molte altre parole legate al Sacro (come blótskapr, blótnaut, blótlundr, ecc).

 

Eventi non sempre aperti al pubblico, i rituali erano compiuti con almeno un fine preciso, che sia di tipo divinatorio, di vendetta o persino a scopo giuridico per mezzo della valenza del hlaut. Sebbene numerose testimonianze descrivono sacrifici di tipo animale, altrettanti ritrovamenti più o meno recenti hanno permesso una ricostruzione di sacrifici umani collegati ad aspetti funerari decisamente interessanti, perché considerati – come anticipato all’inizio – come il più alto dono agli Dei, superabileapparentemente soltanto dal sacrificio di coloro che celebravano il sacrificio stesso.

Nell’ottica funeraria legata al rito, il deceduto diviene un dono da consegnare agli Dei, diventando cibo per questi ultimi, previe specifiche preparazioni della salma e/o del corpo della vittima sacrificale.

 

Considerando come esistano diverse tipologie di fini rituali, uno in particolare era ben osservato: il rito propiziatorio. In un periodo in cui era oltremodo importante il bene della comunità, questi tipi di rituali sacrificali erano ben accetti in quanto mezzo tramite il cui scambio dava modo di continuare ad avere un certo equilibrio che permettesse il buon raccolto, il successo durante le razzie e molto altro della vita di una comunità dei primi secoli dell’era comune.

 

Per questo, più il prezzo era considerato alto e più veniva accettato dagli Dei e, come ci suggeriscono H. Hubert e M. Mauss, nell’atto di consacrazione della vittima, tutti compenetravano nell’azione catartica, compreso chi si era offerto nell’atto rituale, facilitandone il trapasso.

È soprattutto durante l’Era Vichinga che gli esseri umani già privi di vita venivano offerti in atto funerario tramite diverse pratiche enunciate in diverse testimonianze scritte, ma – soprattutto – incrementò la pratica di sacrificio di esseri umani viventi, soprattutto di schiavi legati al proprio signore, in un’ottica escatologica legata al destino di quest’ultimo.

I servi e gli schiavi erano dunque percepiti come compagni indivisibili nel cammino dopo la morte, tuttavia, in una scala di valori, la visione del completamento del funerale di un signore tramite la morte anche dei suoi schiavi era tra le ultime considerazioni rispetto ad altri fini rituali. In ogni caso, i morti non solo assumevano la valenza di un dono agli Dei ma gli era permesso, tramite l’accettazione del sacrificio da parte degli Dei stessi, di ricongiungersi con i loro antenati.

Gli scambi, il gjöft við gjöft, era una forma basilare espressa in diverse manifestazioni che permeavano la vita sacra di ogni individuo fin dall’inizio dei Tempi. Ci sono infatti attestazioni archeologiche di ritrovamenti di ossa in tombe del Neolitico che erano collocate dentro l’abitazione o subito fuori, in quanto chi rimaneva su questo piano materiale aveva la possibilità, in cambio di custodia e venerazione, l’accesso alla Conoscenza tramite la morte dei propri antenati.

All’interno di un sacrificio rituale, ogni parte veniva sacralizzata e resa “dono”, persino quelle parti che potevano essere considerate meno “pure” rispetto ad altre. In questo, Hertz ci spiega come vi era una più complessa rappresentazione sacra che si coniugava ad una pratica di endocannibalismo. Il tipo di sepoltura avveniva in diverse maniere ed era altresì considerata un vero e proprio rituale.

Vi sono tuttavia delle differenze tra una sepoltura normale ed una tramite cremazione.  Il fuoco trasformatore diviene mezzo di elevazione, preparazione al convivio rituale con gli Dei e gli Antenati.

 

La maggior parte delle cremazioni rituali avveniva all’aperto e successivamente il corpo e le ossa venivano bruciate ad alte temperature, talvolta prive dalla parte della carne poiché rimossa e ben distinta all’interno delle tombe in urne a parte. A sottolineare questo tipo di ritualità, nel 1973 fu rinvenuto in un tumulo diverse ossa bruciate e con marchi ben visibili di una donna presumibilmente morta intorno ai 20 e ai 40 anni. Vi furono anche ritrovamenti di coltelli rituali con inciso sopra inscrizioni runiche legate ad atti rituali di fertilità.

Oltre, quindi, all’uso delle ossa e della carne in atto rituale, ovviamente anche il sangue aveva il proprio scopo, venendo raccolto in calderoni appositi o in urne atte, nell’insieme delle cose ad avere una valenza di amplificatore.

 

Federico Pizzileo

 

 

Per approfondimenti: 

Laugrith Heid, La Stregoneria dei Vani, Anaelsas edizioni.

Laugrith Heid, Kindirúnar, Le Rune della Stirpe, Il Grimorio Necromantico, Anaelsas edizioni.

Laugrith Heid, Rún, i tre aspetti di una Runa, Anaelsas edizioni.

Laugrith Heid, Helvíti Svarturgaldur, Manuale pratico di Opera  Necromantica Nord Europea, Anaelsas edizioni.

 

 

*Gli “share” senza citazione della fonte sono elemento di querela poiché si ledono gli elementi del copyright sanciti dalla legge italiana*

Ylenia Oliverio
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Fondatrice e docente dell'Accademia Vanatrú Italia.

Laureata in Filosofia e Storia, Master post Laurea in Beni Archeologici, Master in Preserving and Increasing Value of Cultural Heritage, conseguito a Roskilde (Copenaghen), ulteriore integramento post Laurea
in Scienza dei beni Archeologici.

Archeologo da oltre 13 anni, specializzata in scavo dei cantieri urbani, ha incentrato la sua attenzione verso i culti dell’Europa del Nord e dell'Euroasia durante la sua permanenza nel Canton Ticino per stages formativi al Centro Studi Internazionali Luganesi.

Svolge attività di formazione e informazione, in Italia e in Europa, per la promozione, divulgazione e rivalutazione del Culto Vanico, del Paganesimo puro e degli Antichi Culti dell’Europa ed Euroasia.

Il primo incontro con la Stregoneria Tradizionale è avvenuto nel 1990.

Un commento

  1. Melvi Monno

    È possibile che il sacrificio di sangue sia collegato o addirittura derivi dai riti a base di sangue mestruale? Ed essendo questi ultimi di evidente derivazione da civiltà matrifocale, potrebbero essere antecedenti e quindi ben più antichi del sacrificio di sangue?

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